Mercoledì, 18 Febbraio 2015 17:49

L’Armenia. A cento anni dal genocidio. L’editoriale di A. Nesti

Scritto da  Gerardo

Qui di seguito riportiamo l'editoriale di Arnaldo Nesti al numero 80 (settembre-dicembre 2014), dal titolo L’Armenia. A cento anni dal genocidio, di Religioni e società, la rivista di scienze sociali della religione edita da Fabrizio Serra editore, Pisa - Roma.
Buona lettura!








Editoriale
di Arnaldo Nesti

A lungo portai in me un vero turbamento e sdegno dopo aver visto il film «La masseria delle allodole» dei fratelli Taviani. Nel 2007 i fratelli Taviani evocavano la tragedia armena, o meglio l’eccidio degli armeni, con sobrietà e con vigore: ce lo avevano ricordato con un drammatico film che si rifà all’omonimo libro di Antonia Arslan. Nel film si prende lo spunto da un episodio avvenuto nel 1915. In una cittadina della Turchia vive la benestante famiglia armena degli Avakian. Alla morte dell’anziano capofamiglia vengono invitati alle esequie anche alcuni Turchi, tra cui il colonnello Arkan, capo della guarnigione locale, nella speranza che i passati contrasti tra Turchi e Armeni siano ormai superati, e che si possa instaurare un rapporto di rispetto reciproco tra le due comunità. I funerali sono così l’occasione per la bella armena Nunik di rivedere il suo amato, l’ufficiale turco Egon. Quest’ultimo, pur appartenendo all’organizzazione dei Giovani Turchi, non ne condivide le posizioni anti-armene, e progetta di fuggire all’estero con Nunik.

Intanto Assadur, il figlio maggiore del patriarca, che da molti anni vive a Padova e a cui il padre aveva vietato di tornare in patria, apprende che quest’ultimo ha comunque lasciato a lui la vecchia Masseria delle Allodole. Assadur decide che è venuto il momento di tornare in Anatolia e riunire di nuovo tutta la famiglia. La masseria viene così rimessa a nuovo, e inaugurata con una splendida festa, mentre Assadur inizia i preparativi per il viaggio.

Questi momenti di felicità sono però bruscamente interrotti. Le autorità turche contattano il generale Arkan, dicendogli senza mezzi termini che è arrivato il momento di sbarazzarsi degli Armeni, una volta per tutte: tutti i maschi devono essere uccisi, le donne deportate. Arkan è inorridito, ma deve obbedire agli ordini. Spera tuttavia di salvare la vita perlomeno degli Avakian, ma i suoi ordini non vengono rispettati, e una squadra di soldati turchi si presenta alla masseria, massacrando tutti gli uomini. Alla notizia della strage, Assadur vorrebbe affrettare il ritorno per aiutare gli Armeni, ma la notizia dell’ingresso in guerra dell’Italia lo fa desistere. Intanto il tentativo di fuga di Egon e Nunik è scoperto, ed Egon viene spedito al fronte contro i Russi. Sotto la stretta sorveglianza dei soldati turchi, inizia così per le donne armene una lunga ed estenuante marcia verso il deserto. Qui le donne armene vengono maltrattate sotto le porte di Aleppo finché non verranno uccise tutte.

Siamo alla vigilia dei cento anni dai giorni del massacro degli armeni. Il film, occupandosi della ferita ancora aperta dell’eliminazione fisica degli armeni in Turchia, mi indusse a leggere con occhi nuovi la presenza degli armeni, sparsi per il mondo, fieri della loro storia, della loro fede, della loro cultura, nonostante le violenze subite. Proviamo un disagio estremo, cent’anni dopo il genocidio armeno seguito da tanti altri nel corso del xx secolo, a parlare di pace, a constatare l’impotenza che ci afferra di fronte alle sofferenze di tanti bambini, genitori, nonni.

«Religioni e società» ha ritenuto importante non tralasciare questa occasione per contribuire a rammemorare ed esplicitare dei lati oscuri della storia che in tempi di negazionismo si continua a voler mantenere tale.

Grazie alla qualificata collaborazione della collega ed amica prof. Maria Immacolata Macioti questo numero vuole contribuire a ricostruire l’identità di una vicenda che costituisce non solo il primo e drammatico genocidio del Novecento e quindi un momento drammatico, risvolto del «secolo breve».

Questo numero, dedicato alla vicenda armena, si arricchisce, inoltre, di alcuni particolari contributi socio-religiosi di singolare rilievo. Mi permetto di richiamare l’attenzione del lettore su due contributi, a loro modo speciali. Il primo è il testo tradotto da Manuel Plana di Jan De Vos, un antropologo fiammingo scomparso da poche settimane.

Jan De Vos, rispetto agli storici europei della sua generazione con una solida formazione accademica che si sono occupati del Messico, presenta alcune peculiarità: innanzitutto, dal suo primo soggiorno in Messico, è stato uno dei pochi che ha vissuto in questo paese in maniera continuativa, rispetto ad altri studiosi di valore, compiendo attività di ricerca e di docenza; in secondo luogo, la sua condizione di gesuita è stata essenziale, nel senso che vi giunse nel 1973 come parroco della missione di Bachajón – fondata nel 1958 – nella diocesi di San Cristóbal de Las Casas in Chiapas; infine, egli ha dedicato i suoi studi storici sostanzialmente all’area mesoamericana maya del Chiapas.

Jan De Vos riassume con brevi parole queste particolari condizioni nel primo capitolo della sua autobiografia dicendo che aveva accettato il lavoro pastorale a Bachajón tra i contadini maya sulla spinta della «Teologia della liberazione» e che cercò di aiutare i tzeltales della regione con il proposito di trasformarli, da oggetto di studio, in protagonisti del loro destino; nello stesso tempo, ricorda che il fatto di essere straniero in Messico restringeva seriamente la sua sfera d’azione pubblica, per cui decise di far leva sulla sua formazione di storico – dottore dell’Università Cattolica di Lovanio – per dedicarsi alla ricerca del passato indigeno della regione. Tralasciando gli aspetti più propriamente storiografici nell’ambito degli studi messicanisti, merita segnalare che Jan De Vos è stato riconosciuto come un importante innovatore degli studi sul Chiapas; in effetti, intraprese la pubblicazione di diverse raccolte di documenti del periodo coloniale frutto di ricerche negli archivi messicani, nell’archivio generale del Centroamerica in Guatemala e nei vari archivi spagnoli, in particolare nell’Archivo de Indias’ di Siviglia.

L’altro contributo si rifà al testo da poco pubblicato, dopo lunghe peripezie editoriali, di Corrado Corghi Guardare in alto e lontano. La mia Democrazia cristiana (Reggio Emilia, 2014), di cui pubblichiamo una ampia recensione di Renato Risaliti, nella speranza di avviare una riflessione, oltre che sul libro, sul ruolo svolto da Corghi, non solo nel partito cattolico, ma nel mondo cattolico in generale, specialmente nell’azione cattolica. Lui dichiara «Ho vissuto un periodo di storia politica e religiosa caratterizzato da un forte radicamento nell’umanesimo cristiano e da riferimenti al marxismo...»”. L’importante libro di Corghi riguarda gli anni che vanno dalla Resistenza ai primi tempi del movimento cattolico diocesano a Reggio Emilia, dalla nascita della dc, con rapporti differenziati con Giuseppe Dossetti, con l’on. P. Marconi, alla lunga militanza nella sinistra dc. Presidente centrale del movimento dei maestri nell’Azione cattolica, si trova in sintonia con mons. Montini, ma in contrasto con il prof. L. Gedda. Anche questa parte del libro, sui rapporto fra chiesa e politica, e sul ruolo dei laici nella Chiesa, appare di estrema attualità.

Con questo numero chiude l’annata 2014 di «Religioni e Società». Nel salutare i lettori fin da ora preannunciamo che il primo numero del 2015 sarà dedicato a L’effetto di Papa Francesco, in Italia e nel mondo.


Mentre andiamo in stampa apprendiamo la notizia della morte di Emile Poulat, grande amico di «Religioni e Società». Et lux perpetua luceat ei, Domine.




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